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Guida inclusiva o giudice superbo? Il ruolo dell’Ue nella transizione ecologica dei Paesi in via di sviluppo

L’Unione europea è spesso descritta come un laboratorio di sostenibilità, tra le potenze economiche globali è quella che più di tutte ha intenzione di ergersi come capostipite di una crescita sostenibile, soprattutto per i paesi in via di sviluppo. La leadership che, attraverso scelte politiche decise e consapevoli, l’Ue sta prendendo dentro i confini degli stati membri è un dato di fatto. Rimane, ora, da comprendere come il suo ruolo possa essere percepito nel resto del globo. I paesi cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica più gli ultimi arrivati) hanno infatti già raggiunto la metà delle emissioni di gas serra totali prodotte dall’uomo e, a differenza dei paesi sviluppati, il loro fabbisogno continua a crescere. Avendo intercettato più tardi le traiettorie di sviluppo economico capitalistico questi paesi hanno conosciuto una industrializzazione repentina e tardiva rispetto all’Occidente.

La  traiettoria di crescita dei Paesi in via di sviluppo, che in Europa e Stati Uniti è avvenuta nel secolo scorso, accompagnata da un aumento consistente della popolazione, crea un consumo crescente di risorse, senza però che molti di questi paesi (non tutti, vedi la Cina) abbiano l’infrastruttura e gli strumenti finanziari adatti per poter affrontare una transizione ecologica parallela, che sostenga in maniera salda la crescita economica, demografica e di richiesta energetica degli ultimi anni. In questo contesto l’Europa, che sta compiendo passi da gigante, non solo dal punto di vista legislativo, ma anche di formazione delle coscienze, si trova comunque di fronte ad un bivio. Una transizione ecologica compiuta solo dalla parte “ricca” del mondo, infatti, risulterebbe inutile dal punto di vista dell’abbattimento delle emissioni. L’Unione Europea, dunque, viste anche le reticenze degli Stati Uniti, ha tra le mani una grossa responsabilità: dimostrare che il cambiamento non solo è possibile, ma è desiderabile.

Il ruolo di traino è sottoposto però ad un condizione stringente: quello dell’Ue non deve essere un modello elitario, non facilmente adattabile ai contesti in cui servono soluzioni low-cost e scalabili. Il continente europeo ha delle prerogative socioeconomiche completamente differenti rispetto ai paesi in via di sviluppo, un sistema economico avanzato e una crescita demografica nulla (se non negativa). Questo permette di poter sperimentare degli standard ambiziosi. Al contrario, in molti stati asiatici e africani la rapida urbanizzazione e la limitatezza delle risorse, soprattutto negli strati più bassi della popolazione, impone delle scelte completamente diverse e spesso conciliarle con le sfide della sostenibilità è difficile, o del tutto impossibile. Per questo l’ingrediente segreto per il successo europeo, come faro guida globale verso una transizione ecologica giusta e inclusiva, è quello di passare da regole di eccellenza a modelli di inclusione, in cui l’Europa non esporta solo norme severe, ma supporta concretamente l’adozione di pratiche edilizie green con assistenza tecnica, trasferimento di tecnologie e finanziamenti dedicati.

Il lato luminoso: investimenti che innescano il cambiamento

L’Unione europea è stata capace di definire standard globali e di porsi come principale attore nella lotta al cambiamento climatico, anche se le buone intenzioni, come vedremo, non bastano. Le sue strategie, si pensi al Green Deal europeo al pacchetto Fit for 55, fino alla tassonomia verde e ai meccanismi di aggiustamento del carbonio CBAM, riguardano sia industria che agricoltura, e incidono sempre di più sul settore dell’edilizia, uno dei maggiori responsabili di emissioni e consumo di risorse.

Con la Direttiva Case Green, la EPBD (Energy Performance of Buildings Directive) e l’adozione dei criteri ESG per la rigenerazione urbana, l’Ue ha tracciato una rotta chiara verso un’edilizia sempre più sostenibile. Queste iniziative non solo introducono norme avanzate, ma promuovono un approccio integrato fin dalla progettazione degli edifici, ponendo l’accento su nuovi standard costruttivi basati su efficienza energetica, utilizzo di materiali riciclati, contenimento del consumo di suolo e principi di economia circolare. Sebbene ancora in fase di evoluzione, questo modello europeo si sta già affermando come riferimento a livello globale.

Ed è una buona notizia: le città rappresentano il cuore di trasformazione. Secondo le Nazioni Unite, entro il 2050 circa il 68% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, con le crescite più rapide attese in Africa e Asia. Di fronte a questa rapida urbanizzazione, la sfida è enorme: come realizzare milioni di nuovi edifici e infrastrutture senza ripetere i modelli del passato, energivori e ad alto impatto ambientale?

In questo contesto, l’Europa ha la responsabilità e la possibilità di agire da guida per paesi emergenti, offrendo un modello replicabile ma adattabile alle diverse realtà locali. Ciò significa affiancare questi paesi con soluzioni su misura, capaci di coniugare sostenibilità e sviluppo. Strumenti come le certificazioni LEED, BREEAM e DGNB sono ormai standard riconosciuti a livello internazionale per la valutazione della sostenibilità degli edifici. Parallelamente, la Renovation Wave europea sta mobilitando risorse e incentivi per ridurre i consumi energetici nel patrimonio edilizio esistente. Contemporaneamente, la ricerca continua ad offrire nuove possibilità: materiali innovativi come calcestruzzi a basse emissioni e biocompositi stanno aprendo la strada a un’edilizia più ecologica, con un potenziale di applicazione anche nei mercati in via di sviluppo. È in questa sinergia tra norme, investimenti e innovazione che prende forma la città del futuro: resiliente, inclusiva e a basse emissioni.

È da notare che gli sforzi dell’Ue non sono meramente tecnici e legislativi. L’Unione, infatti, ha avuto un ruolo politico (e finanziario) decisivo, convincendo G7 e OCSE a sbloccare i famosi 100 miliardi di dollari l’anno per il finanziamento climatico ai Paesi in via di sviluppo. Inoltre Bruxelles ha mobilitato anche risorse interne, come il programma Global Gateway (300 miliardi di euro tra 2021 e 2027, con un’enfasi marcata sull’Africa), strumenti di finanza integrata e fondi multilaterali per il clima. I flussi finanziari iniziano, finalmente, ad allinearsi alla portata del problema.

Così, l’Europa si conferma traino verso modelli a basse emissioni, in grado di ridurre consumi, rifiuti e impatti ambientali. Per molte nazioni emergenti, che costruiscono metropoli a ritmo frenetico, le linee guida europee sono un vademecum di buone pratiche: per creare fin da subito un modo di vivere e abitare che non solo limiti i danni, ma restituisca valore ecologico.

 Il lato oscuro: costi e disparità di accesso

È da notare tuttavia come l’approccio avanguardistico europeo porti con sé una serie di problematiche nei paesi in via di sviluppo: in questi contesti infatti il passo che fa diventare le norme sulla sostenibilità un ostacolo insormontabile si rivela spesso molto breve. La mancanza di tecnologie avanzate e di capitali consistenti rende l’adeguamento ai criteri ESG un dedalo inestricabile, che richiede costi elevati per certificazioni, materiali e manodopera specializzata.

È da considerare poi l’effetto che si crea ponendo paletti fuori portata ad economie ancora non mature in questo senso: ogni standard esportato comporta un costo trasferito. Molte imprese e lavoratori nei mercati emergenti faticano a rispettare requisiti tecnici rigidissimi. La legge anti-deforestazione europea (EUDR), per esempio, salutata come una svolta storica contro la distruzione delle foreste, ha generato preoccupazioni concrete legate al rischio di escludere dal mercato i piccoli produttori di cacao, caffè o gomma, che non dispongono delle risorse per ottenere le certificazioni richieste. Senza assistenza tecnica, programmi di crescita e periodi transitori realistici, in cui creare le effettive capacità per affrontare la transizione, si rischia di trasformare la “sostenibilità” in una barriera all’ingresso.

A questo si aggiunge la questione spinosissima delle materie prime critiche. La transizione verde europea – turbine eoliche, batterie, pannelli solari – si fonda su catene di fornitura globali, spesso radicate in contesti con standard ambientali e sociali deboli. Le denunce per violazioni dei diritti umani nelle miniere, in Africa ma anche in Europa e Asia centrale, e le crescenti controversie legate all’estrazione di minerali strategici sollevano una domanda scomoda: possiamo davvero decarbonizzare in Europa esternalizzando i costi sociali e ambientali altrove?

Supporto o ostacolo? La sfida della sostenibilità globale si gioca qui

Il messaggio che arriva al Sud globale è ambiguo: l’Europa pretende standard elevati da tutti, ma non sempre riesce a sostenere la pressione politica quando lo sforzo ricade sulle proprie imprese e a rendere davvero coerente tutta la filiera della decarbonizzazione, che ovunque dovrebbe pretendere standard ambientali e sociali alti. La credibilità del suo ruolo di guida dipende anche dalla capacità di mantenere una ferrea coerenza, sia interna che esterna, oltre che continuità nel tempo.

Se l’Ue vuole essere il faro di una transizione giusta, dovrà in primis rafforzare le indagini, affiancando controlli e sanzioni su tutta la filiera interna e fornire un supporto concreto nei contesti più fragili per evitare di marginalizzare le piccole e medie imprese. In secondo luogo attenuare la rigidità normativa, laddove, come nel caso EUDR, per scongiurare la possibile trasformazione della stessa in una barriera commerciale.

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